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.Il pacco.

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Io non sono d’accordo con quest’affermazione: <<La scrittura è meglio di una sbronza>>. Certo, risultano minor effetti collaterali: non c’è vomito alla mattina da ripulire intorno al water, o mal di testa o di stomaco – sempre quella mattina mentre si pulisce il pavimento del bagno.

Posso assicurarvi, però, che una buona bevuta, alcune volte, eleva l’anima in mondi e palcoscenici così idilliaci da venir nelle mutande per l’estasi della visione inoculata.

La scrittura, invece, capita che sia cattiva. Si basa – quasi sempre, dal principio – sul male; interiore o esteriore che sia. Tra l’altro, la scrittura, è ricordi, vita vissuta, presente remoto; e lo sappiamo: i ricordi più grandi e indimenticabili sono quelli che ci hanno lasciato un livido sul cuore o una cicatrice sul volto.

Sta a noi decidere come gestire tali conseguenze. La scrittura è una conseguenza. Come l’alcool. Ma l’alcool ha il dono e la potenzialità di spostare quel male al suo male. Prassi:

bicchieri dopo bicchiere, enfasi;

bicchiere dopo bicchiere, confusione;

bicchiere dopo bicchiere, voltastomaco;

e per il resto vi rimando all’inizio di questo testo.

Le due particelle, scrittura e bevuta, possono essere correlate dallo stesso male. E’ possibile che si beva e poi si scriva. O viceversa: prima si scrive e poi ci si ubriaca ben bene. Dipende quanto sia stretta e vicina la voglia di fare entrambe le cose. Perché, come dicevo, sono conseguenze, e le conseguenze meglio recepirle un po’ alla volta, almeno per avere un dopo da sistemare e confortare.

Bisogna dire che, la scrittura, in confronto all’alcool che a un certo punto passa e si dissolve, è un incisione. Libera, ma trattiene. Non allontana. Né uccide i neuroni né corrode il fegato. E’ pura e ruffiana. Insopportabile ed eccitante. La si ama principalmente perché rende eterni i nostri dolori, i nostri lamenti. Perché siamo vanitosi e masochisti. Perché ci rendiamo conto che grazie a loro noi siamo esseri umani e fratelli. Perché mio dolore tuo dolore. In forma diversa, ma pure sempre nostri.

Comunque non è di questo che voglio narrarti.

Io voglio parlare di una scatola. La signora scatola. Divenuta in seguito un misero pacco. Perché questo è il destino da me imposto. E anche se l’amore ci ha per pochi minuti uniti e sorpresi: pacco è e pacco rimarrà.

 

Vivo in un monolocale strano: come si entra c’è un minuscolo living con un enorme armadio a muro sulla parete di destra; davanti, la porta che da sul bagno e a sinistra l’entrata che da sulla camera da letto/ soggiorno/ sala da pranzo e di studio. Questa stanza sarà grande un 15 metri quadri. Seguendo, c’è un cucinino e sulla destra il balcone. Vivo, in poche parole, in un buco con il soffitto alto insieme ad un bonsai (deposto nel bagno) che ha perso l’interesse per la vita. Su di lui permane solo una foglia verde e, sono convinto che, al prossimo scarico, col movimento d’aria del mio braccio che tira di scatto la leva a muro dello sciacquone, cadrà e non resterà che uno scheletro marroncino in un vaso bianco dell’Ikea.

Visione triste e malinconica. Poetica sì, ma pur sempre drammatica e suggestiva. Perché sono io. Perché siamo noi. Perché è la vita. Perché un bonsai non può vivere in un cesso di 10 metri quadri, in una città congestionata dal gelo e dall’inquinamento, con un uomo che dice: <<Cazzo, l’acqua al bonsai!>>; così, per diversi giorni.

Lì c’è una foglia, quindi vuol dire che ancora c’è una speranza (magari non vuol dire neppure quello; forse è mia quella ricerca di speranza). Le sto provando tutte. Gli parlo. Gli leggo poesie. Gli ho messo il maestro tartaruga di Kung Fu Panda vicino. Scarico l’acqua una volta al giorno.

Per ora regge. Gli è stato regalato anche un pezzo di quarzo per offrirgli energia. Sento che ce la farà.

 

La scatola. La scatola è un contenitore a forma di parallelepipedo, di cartone, con due fori sui lati minori per poterla arpionare e caricare e alzare con maggiore facilità. Ci sono pure disegnate delle mani per esemplificare l’utilizzo di quei fori. In basso c’è scritto FRAGILE. Ma ignoro il suo ex contenuto e l’uso fatto. Non c’è nessuna etichetta né marca. E’ un ibrido. Forse un prototipo di rara forgiatura. Forse mi ammazzeranno per riaverlo. Ma ormai è troppo tardi.

 

C’è una convinzione al Sud: si pensa che al Nord non esistano determinati alimenti: il pane, l’olio, le arance, i mandarini, i formaggi. Pure le caramelle o le noci. Solitamente è una questione d’orgoglio: <<Sono meglio le nostre!>>. Oppure di risparmio: <<Ma se a noi ce le regalano, perché devi comprarle?>>. Io credo che sia semplicemente un modo per non dimenticarsi della propria casa. Di tenere un legame presente e futuro. Tale convinzione protende a diventare cultura, un regime stabile col tempo. Se non si ha la forza o la voglia di contrastarla, si rischia di ricevere – se va bene – ogni mese due o tre pacchi carichi di ogni ben di Dio che finirà per la maggior parte:

1. ad amici e parenti;

2. nella spazzatura.

Il punto secondo si verifica quando, dopo il lungo tragitto, infiltrazioni di pioggia, umidità o una bottiglia di olio mal chiusa, distruggono e rendono marcia la mercanzia.

 

Dopo tre settimane di combattimento, hanno avuto la meglio. Con la scusa di spedirmi la patente nuova – quella “vecchia” mi è stata rubata ad ottobre con l’intero portafoglio (quindi parliamo di una minuscola tessera rettangolare, con gli angoli smussati, leggera, facilmente inseribile in una busta da lettera, anche da commiato funebre) -, decidono di mandarmi un pacco con una cassetta di mandarini, <<Senza noccioli, come piacciono a te!>>, caramelle, mandorle, formaggi e chissà che altro.

Ho ceduto. Da un lato, volontariamente.

Vivendo in un tugurio, i tre quarti sono occupati da libri e chitarre e un letto matrimoniale pieno di carte e libri e cd. Con la scusa dei mandarini, decido di fare un po’ di ordine e di spedire giù alcune carte e vestiti e documenti che qui, ora, non mi servono più.

Tanto per recuperare un po’ di spazio per le cose nuove.

Tanto per cancellare cose che non mi andava più di vedere o indossare.

Tanto per rilegarli nel paese “buco del culo del mondo” dove sono nato e dove tutto mi richiama e mi aspetta.

 

Vado al PAM gigantesco sotto casa e chiedo alla commessa se si può avere, gentilmente, una scatola vuota. Mi dice di ripassare intorno alle 19 che c’è “L’uomo delle scatole” e Lui saprà darmi ciò che desidero.

Immaginate voi come ho vissuto il resto della giornata. “L’uomo delle scatole”: un folletto? Un tizio che arriva pattinando in giacca e cravatta e che, prendendomi in braccio, mi conduce nel Mondo delle Scatole, consigliandomi – in base alle mie esigenze – la dimensione esatta per l’utilizzo che devo farne? Poi c’era quella parola fondamentale che sta alla base del concetto di funzione continua e di limite: Intorno. Vuol dire che lui è lì, ma non lo si vede? Che sbuca solo quando si sente chiamare a riguardo del suo lavoro?

Io non sono un tipo puntuale, ma alle 19 ero un orologiaio svizzero che non si stupisce della sua precisione cronometrica.

Chiedo all’identica commessa: <<C’è “L’uomo delle scatole”?>> Sì, c’è, ma non è un folletto, giammai un uomo sui pattini in giacca e cravatta. Bensì è alto minimo due metri, robusto, occhiali e pustolette sul volto, che mi dice: <<Seguimi>> con voce baritonale, quasi robotica. Lo tallono con delusione. Non mi conduce neppure nel Mondo delle Scatole, ma dietro la cella frigo. Mi da una scatola di incomprensibile misura perché aperta e schiacciata, e mi dice pure – dopo avermi detto “Seguimi”: <<La prossima volta non entrare qui.>>

Grazie.

Rientro a casa con la scatola sotto braccio e con tanta amarezza la ricompongo e comincio ad inserire le cose da spedire.

Prima di chiuderla decido di preparare la cena, mangiare e poi guardarmi in giro per controllare che non dimentichi di inserire qualcosa.

Fatto.

Prendo lo scotch per i pacchi e inizio a sigillarlo.

In quel momento scatta l’amore.

Mi rendo conto che è perfetta. Nessun graffio, nessuna macchia, nessuna incrinatura o strappo. Liscia al tatto. Dimensioni equilibrate. Sensuale. L’accarezzo. Provo a tirarla su dai due fori: è comodo, non stanca. La accarezzo ancora e l’ammiro, ammiro la sua rara bellezza. E’ immoralmente casta e imperiale. Questa è la Regina delle scatole. Mi balena l’idea di non spedirla, di tenerla qui con me. Di venerarla. Di portarmela dietro come un’amica. Di mostrarla al mondo. Di renderla unica e speciale; lo confermerebbero tutti. Me la vedo pure come zaino o cassaforte per i miei segreti. E’ bella. E’ maledettamente bella. E lei mi ama, lo so. Mi ama perché l’ho salvata dalle grinfie di quell’orco, dal macello, dal compattatore; dal rinascere chissà che cosa. Forse per lei io sono un Re. Anzi, un cavaliere che sfida il sistema dell’usa e getta e ricicla, pronto a immolarsi per le povere scatole indifese.

Ma la verità è un’altra.

La verità è che a me serve una scatola che diventi pacco da spedire.

La verità è che ho un bonsai in bagno che ha i complessi di Amleto.

La verità è che l’amore, di questi tempi, è come la letteratura in generale: <<Simpatica.>>

La realtà è che dopo pochi minuti di passione e sbalordimento, ho continuato a sigillarlo e il giorno dopo l’ho consegnato al fattorino venuto a portarmi il pacco speditomi dal Sud.

Lo scambio, come immaginavo e come ho descritto, non è stato equo.

Lo sarà quando arriverà giù, a casa mia.

Non riceveranno la Regina delle scatole, ma un cartone pieno di scotch marrone, ammaccato, umido e, chi lo saprà mai, forse piangente.

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